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«La fine della guerra ha aperto in tutto il mondo un periodo nuovo, profondamente diverso dai precedenti. In questo periodo i contrasti tra le due opposte classi sociali, tra chi comanda e chi dovrebbe ubbidire, tra chi è padrone dei mezzi di vivere e di produrre e chi per vivere deve vendersi a un padrone, tra chi è proprietario e chi è salariato, tra chi è ricco e chi è povero, sono diventati sempre più profondi. Vi è stato, anzi, un tempo, subito dopo la fine della guerra, in cui sembrava che i dominatori del mondo, cioè la classe dei proprietari, dei padroni, dei ricchi, stesse per venire travolta, come da una gigantesca ondata, dalla rivolta dei poveri, degli sfruttati, dei salariati, nei quali la guerra aveva sparso un malcontento enorme, ai quali, anzi, la guerra stessa aveva insegnato la ribellione. E la vittoria degli sfruttati sugli sfruttatori parve, in quel momento, possibile, soprattutto perché, sempre in conseguenza della guerra, correva il pericolo di andare distrutta tutta l'organizzazione economica che gli sfruttatori avevano creata e sulla quale si fondava il loro dominio. Quale in queste condizioni il dovere dei lavoratori, dei ribelli decisi a combattere per distruggere la società attuale e crearne un'altra, nella quale vi sia per tutti maggiore giustizia e più grande libertà? E evidente. I lavoratori dovevano lottare, approfittando delle condizioni eccezionali, per affrettare la caduta del regime attuale, dovevano lottare con violenza sempre più grande per strappare il potere ai loro nemici, e dovevano sempre più allontanarsi da questi loro nemici, e stringersi attorno ai propri organismi come un esercito alla vigilia dell'urto e della vittoria suprema. Ebbene, mentre le masse capivano assai bene che questa era la necessità del momento e con entusiasmo davano la loro adesione alle organizzazioni [sindacali] e al Partito [socialista], perché volevano essere guidate alla lotta, gli uomini che stavano a capo delle une e dell'altro non ne volevano sapere.» (A. Gramsci, «Il perché della scissione», in La Compagna, 13 maggio 1922)